Alla ricerca d’un Dio perduto. Ma nell’arte (e nel teatro, nelle forme invisibili del misticismo) Egli potrà ancora rivelarsi
Andrea Bisicchia, «Lo Spettacoliere».
In Italia, per molto tempo, la letteratura nordica ha avuto, come punti di riferimento, Ibsen e Strindberg, soltanto verso la fine del 1900 ha scoperto autori come Lars Noren, svedese, classe 1944, o come Jon Fosse, norvegese, classe 1959, un po’ snobbati, a dire il vero, dalle grandi case editrici e dai Teatri Stabili, anche se, abbastanza recentemente, lo Stabile di Torino ha prodotto Sogno d’autunno, visto anche a Milano, al Franco Parenti, con la regia di Valerio Binasco, protagonisti Giovanna Mezzogiorno, Michele Di Mauro.
Altri drammi come Caldo, Insonnia, Io sono il vento hanno suscitato l’interesse di giovani attori e giovani registi. A proposito di Fosse, molte sono state le definizioni sulla sua poetica e sul suo linguaggio: cantore dell’infelicità quotidiana, dell’incomunicabilità, autore di un linguaggio asciutto, ripetitivo, asettico, analitico, capace di sezionare la frase per trarne significati diversi. Dei suoi testi si sono interessati registi come Patrice Chéreau e Thomas Ostermeier.
L’editore Cue Press ha pubblicato, a cura di Franco Perrelli, noto conoscitore della drammaturgia nordica, il volume Saggi gnostici, dove sono raccolti molti interventi sulla letteratura e sul teatro, a cui Fosse si è avvicinato dopo anni di narrativa, con la consapevolezza che il linguaggio letterario sia ben diverso da quello saggistico o drammaturgico, e che la teoria ha poco a che fare con la creazione artistica.
Chiediamoci subito perché saggi gnostici? Per Fosse, la risposta è alquanto chiara: perché la conoscenza sta a base di tutto e perché da essa, al di là della fede, dipende la salvezza spirituale. A tale proposito, Fosse è andato alla ricerca di un Dio perduto, scoprendo che Egli si rivela attraverso l’arte e la gnosi, le sole che permettano di conoscerlo in profondità. Il vero teatro è quello che sulla scena è «attraversato dall’angelo», grazie al quale, la scena stessa diventa ‘mistica’. Compito della scrittura, pertanto, è far conoscere ciò che risulta sconosciuto o che viene ad esistere per la prima volta, essa può essere espansiva, come quella di Ibsen e Joyce, o riduttiva come quella di Beckett e Bernhardt, autori ai quali si sente più vicino.
Per Fosse, buon conoscitore del pensiero di Wittgenstein, l’arte drammatica ha la capacità di realizzare il vero, facendolo accadere, parafrasando, in tal modo, l’inizio del Tractatus, dove si legge: «Il mondo è tutto ciò che accade», come a significare che siamo tutti uomini d’azione. A tale proposito, Fosse scrive: «In ogni caso c’è una conoscenza su come noi, spesso, attraverso dichiarazioni emotive e silenzi, per così dire, ci creiamo l’un l’altro anche come significativi e impegnati uomini d’azione». In un suo dramma, La notte canta i suoi canti, la protagonista si chiede: «Cosa fa accadere ciò che accade?».
La buona drammaturgia, non solo deve chiedersi ciò che accade, ma come accade, in questa ricerca, sostiene Fosse, la si sente più vicina all’uomo per poterne scrutare i segreti e i misteri. Forse per questo, Fosse ricorre allo gnosticismo, perché, nei segreti del genere umano, si trovano forme dell’invisibile e il teatro dà il meglio di se quando è capace di rappresentarlo, quando porta in scena l’inspiegabile, da cui dovrebbe scaturire l’azione, non quella convenzionale, ma quella fondata sulla tensione, sulla intensità, perché il dramma non va costruito sulla discussione, bensì sul pensiero, per la cui esecuzione ha bisogno di un attore che sappia elevarsi, rispetto al personaggio, e che sappia distanziarsene, dovendo essere contemporaneamente ‘parte e totalità’. Al suo lavoro, però, deve corrispondere quello dello spettatore che dovrà essere capace di ‘connettersi’ con quelli che Fosse chiama «momenti magici» o «istanti privilegiati».
Il volume è preceduto da una sapiente introduzione di Franco Perrelli, che ne è anche il traduttore.